Don Giuseppe Andreoli
Nasce a San Possidonio (MO) il 6 gennaio 1789, da Luigi e Antonia Soresina Jugali. Manifesta già da adolescente il desiderio di diventare sacerdote, ma per la situazione economica e l’avversione paterna intraprese studi tecnici, diventando agrimensore nel 1813 all’Università di Bologna.
Nel 1814 entrò in seminario a Reggio Emilia, dove coltivò i propri interessi letterari e dove venne ordinato sacerdote il 6 aprile 1817.
Nel 1819 ebbe l’incarico di istitutore in una nobile famiglia di Reggio e precisamente divenne «precettore di Rettorica» dei conti Domenico e Francesco Soliani Raschini. Nel salotto dei Soliani avrebbe cominciato a sentire discorsi progressisti e democratici.
Nella famiglia di Carlo e Giuseppe Fattori, sarebbe venuto in contatto vero e proprio con la Carboneria, alla quale si sarebbe poi affiliato nella primavera del 1820.
Nel 1820, grazie ai Soliani, ottenne la cattedra di grammatica e retorica nel Collegio di Correggio: era un’antica istituzione riaperta dal Duca di Modena e Reggio solo l’anno precedente per accontentare sia la nobiltà locale sia la diocesi; infatti era anche seminario e perciò assoggettata al vescovo.
L’arresto
Il 26 febbraio 1822, il sacerdote venne arrestato dalla polizia del Duca nella sua camera all’interno del seminario-collegio, dopo una sosta di qualche ora a Reggio venne trasferito a Modena la mattina del 27 per essere interrogato.
A contestargli le accuse fu il governatore Luigi Coccapani, marchese e “ministro di buon governo”, che poi lo affidò alle mani di Giulio Besini, famigerato capo della polizia.
Il processo
I tribunali statari straordinari erano corti speciali istituite nel marzo 1821 da Francesco IV per reprimere gli oppositori, in particolare per perseguire i “crimini” di lesa maestà e aderenza a sette e associazioni segrete.
Eccezionale erano le procedure: abolivano ogni «privilegio di Foro», che in questo caso significava sottrarre il sacerdote al tribunale ecclesiastico, poi dovevano «giudicare sommariamente, ed in unica istanza». Dunque giudizio sommario e inappellabile.
Nel settembre 1820, il sovrano aveva decretato la decapitazione per gli appartenenti a società segrete e quindi questi tribunali speciali potevano mandare a morte i condannati.
Negli interrogatori Andreoli avrebbe negato ogni addebito, ma si sarebbe confidato con un compagno di cella che in realtà era una spia. Questa l’unica “prova” in mano all’accusa.
Secondo gli storici, pertanto, è falso definirlo «reo confesso e convinto» come fecero i giudici ducali per condurlo al patibolo. Gli atti dell’istruttoria, peraltro, furono presto distrutti dalle autorità estensi, quindi ogni ricostruzione si basa sull’oralità di testimoni più o meno diretti. È giunto invece fino ai nostri giorni il testo della condanna, precisamente il decreto con cui Francesco IV confermò le «sentenze definitive».
Con don Giuseppe Andreoli erano una sessantina i patrioti denunciati: diversi furono processati «contumaci o profughi», gli altri torturati e drogati per estorcere “confessioni” e nomi. La sentenza fu emessa l’11 settembre 1822: 47 i condannati, dei quali dieci – compreso il prete – a morte, ma per tutti, tranne Andreoli, la pena fu commutata nell’ergastolo o graziata.
L’esecuzione
Contro la pena capitale, evidentemente spropositata, intervenne inutilmente, fra gli altri, il vescovo di Reggio, recandosi di persona a Verona dove soggiornava in quei giorni il sovrano: ma Francesco IV fu sordo a ogni richiesta di clemenza, volendo dare ai sudditi una lezione esemplare, per il doppio e potenzialmente “pericoloso” ruolo di Andreoli, pastore di anime ed educatore di giovani.
Francesco IV volle anche umiliarlo, ordinando di ridurlo allo stato laicale. Cosa che il nuovo vescovo di Reggio, monsignor Angelo Ficarelli, si rifiutò di fare: ma non quello di Carpi, Filippo Cattani; così il giorno prima dell’esecuzione, – prim’ancora che arrivasse l’autorizzazione dal Vaticano – fu “spretato”.
Per mettere in atto l’esecuzione fece venire apposta da Brescia una ghigliottina e relativo boia. L’esecuzione pubblica era fissata per le 12 del 17 ottobre 1822, davanti al “Sasso” di Rubiera.
Stando alla tradizione, il condannato a morte si sarebbe tagliato i capelli da solo chiedendo di farne avere una ciocca alla madre; poi avrebbe donato ad altri carcerati i propri oggetti (tabacchiera, fazzoletto, libro).
Sempre secondo alcune testimonianze, il povero sacerdote dopo aver prima rifiutato poi accettato la benda sugli occhi, sarebbe caduto in deliquio nel posizionarsi supino, tanto che la lama lo avrebbe colpito in malo modo, tagliandogli anche l’omero.
Il corpo fu sepolto a Rubiera, in una chiesa sconsacrata, con i piedi rivolti a est e la testa mozzata fra le gambe. Nel 1887 fu riesumato e alcune ossa vennero restituite al suo paese natale, dove da quel giorno si trovano.
Riferimenti bibliografici
- Wikipedia: https://it.wikipedia.org/wiki/Giuseppe_Andreoli_(patriota)
- Tullio Fontana, Prigionia e morte di don Andreoli: 17 febbraio-17 ottobre 1822, Tip. Della Camera Dei Deputati, 1918
- AA. VV. don Giuseppe Andreoli a 200 anni dalla nascita, 1789-6 gennaio 1989, Parrocchia di San Possidonio 1989
- Treccani On-Line: https://www.treccani.it/enciclopedia/giuseppe-andreoli_%28Dizionario-Biografico%29/